
Non sopporto il freddo, i piedi congelati, le mani intorpidite anche sotto i guanti. L’unica cosa fredda che amo davvero è il cono alla nocciola e panna montata, in estate. Ma qui c’è ben poco da fare, gennaio è lunghissimo e porta con sé gelate, vento pungente, pelle d’oca a volontà.
Un esercizio che mi aiuta a superare questo disagio è pensare a ciò che è bello solo in inverno e fare una lista anti brutto: il pancino del pettirosso che ho scoperto essere simbolo di resistenza, il profumo del calicanto, un fiore controcorrente, il buio presto (quello mi piace tanto), la coperta sul divano, le trame della brina sul prato. Ecco che il freddo mi sta già più simpatico.
L’inverno poi solo apparentemente è immobile e indifferente, ogni cosa si prepara a scoppiare di vita non appena si allenta il gelo e i raggi del sole si fanno più coraggiosi. L’inverno è come una rincorsa prima del salto in alto primaverile.
Che fare nel frattempo? Approfitto di questa finta immobilità, accentuata da una bella zona rossa, congelando pensieri come fossero sofficini in freezer: sono piccoli semi che farò germogliare più in là. Leggo un sacco e prendo appunti sparsi. Ma sto anche lavorando a una nuova risorsa gratuita su parole, idee, metodo di studio e osservazione: il metodo Cupcake. Il nome scalda il cuore, vero? E poi sono al lavoro per un mio progetto editoriale, un viaggio-laboratorio attraverso quindici libri, ognuno dei quali mi ha raccontato segreti che non conoscevo e mi ha regalato pensieri che non avevo. Questi semini riposano sotto la coltre invernale, le idee sedimentano e ogni tanto torno da loro, le nutro, aggiungo o tolgo qualcosa.
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Non bisognerebbe mai smettere di seminare qua e là, anche in modo inconsapevole come scrivevo qui, parlando di gesti belli che ci tornano indietro come boomerang.
Questo freddo inverno mi ha offerto una ragione in più per amarlo, anzi tre, e sono tutte bianche. Uno scialle della nonna che ho ritrovato in una scatola in fondo all’armadio, lana soffice intrecciata a fili d’argento che mi ricordano tanto i suoi capelli e la sua voce; il solitario bucaneve sbocciato in un angolo del giardino e la mia cucciola di labrador, Bianca, le cui orecchie morbidissime mi fanno impazzire.
C’è un luogo immaginario perfetto per questo momento: Zobeide, una delle città invisibili di Calvino.
È tutta bianca, ben esposta alla Luna e le sue strade girano a gomitolo. Le hanno costruite gli uomini giunti lì condotti dallo stesso sogno nel quale inseguivano la medesima donna. Hanno deciso di disegnare le strade seguendo le direzioni che avevano preso nel sogno, sperando di ritrovarla. Alla fine questa città si è trasformata in una trappola inutile perché quella donna non è mai più comparsa, neppure in sogno. Ecco, Zobeide nasce dal potere del sogno, di questa città mi attraggono il gomitolo di strade e il bianco della Luna e gli uomini che inseguono un obiettivo pensandolo con intensità. Un luogo invisibile che mi porta inevitabilmente a pensare alla trappola delle limitazioni in cui viviamo, anche se una differenza c’è, perché credo proprio che noi troveremo una via d’uscita.
(photo by Alex on Unsplash)