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Credevo di dedicare questa mia riflessione a una scrittrice tra le fortunate che compaiono nei libri di letteratura per la scuola e anche nei programmi dei concorsi per docenti. E invece no, non in tutti per lo meno: non trova spazio nel libro già adottato nella mia scuola “Le occasioni della letteratura” edizioni Pearson e neppure in quello di più recente adozione “Vivere la letteratura” edizioni Zanichelli. Neppure un trafiletto a lei dedicato.

Mi riferisco a Natalia Ginzburg, nata a Palermo il 14 luglio 1916, ultima di cinque figli. Suo padre, Giuseppe Levi, triestino ebreo antifascista, docente di anatomia comparata a Palermo, sua madre era Lidia Tanzi, di famiglia di tradizione socialista. Natalia sposò Leone Ginzburg, ebreo antifascista di origini russa e ucraina (era nato a Odessa), scrittore e co-fondatore della Einaudi, condannato prima al confino e poi al carcere di Regina Coeli dove morì a seguito delle torture subite. La vita di Natalia Ginzburg è costellata di eventi, incontri e scritti e potrete trovare tutti riferimenti biografici a questo link. Lei scelse di cambiare il suo cognome con quello del marito e anche quando Leone Ginzburg morì e lei si risposò, volle conservarlo insieme alla memoria di lui.

Natalia Ginzburg in un’intervista del 1964, un anno dopo aver vinto il Premio Strega con il suo romanzo Lessico famigliare, racconta di quando ai suoi esordi di scrittrice, aveva orrore che si capisse che era una donna dalle cose che scriveva. Continua nell’intervista in questo modo:

Temevo in me i difetti delle donne, che io li ho tutti, cioè la mancanza di obiettività, il sentimentalismo, eccetera. Poi la condizione di donna deve essere accettata da uno scrittore, cioè non si può scrivere sentendosi diversi da quello che si è. Io so storie di donne e so raccontare solo storie di donne.

Mentre dice queste cose, nel suo tono di voce e nella sua espressione, mi sembra di cogliere un’accettazione malinconica. Forse mi sbaglio, ma quel che è certo è che Natalia Ginzburg sapeva scrivere proprio bene di quello che conosceva, comprese la condizione femminile e la gabbia sociale in cui molte donne vivevano, alcune accettandola senza rendersi conto di quanto fosse limitante e ingiusta.

Questa paura della scrittura Ginzburg la esprime anche nella prefazione a Cinque romanzi brevi e altri racconti. “Avevo un sacro orrore di essere attaccaticcia e sentimentale , avvertendo in me con forza un’inclinazione al sentimentalismo, difetto che mi sembra odioso, perché femminile: e io desideravo scrivere come un uomo“.

Ricordo di aver provato disappunto e dispiacere leggendo le parole di quella che allora era una giovanissima scrittrice. Probabilmente si sentiva insicura nel varcare la soglia dell’universo della scrittura, un mondo prevalentemente maschile, di scrittori considerati inarrivabili; forse ne provava soggezione e sentiva il peso del contesto sociale.

In un saggio dal titolo Discorso sulle donne, inviato alla rubrica condotta da Alba de Cespedes nella rivista Mercurio, la nostra scrittrice esprime la malinconica consapevolezza che “le donne hanno la cattiva abitudine di cascare ogni tanto in un pozzo, di lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro, e annaspare per tornare a galla. Questo è il vero guaio delle donne”.

Alba de Cespedes le risponde che “questi pozzi sono la nostra forza. Perché ogni volta che cadiamo nel pozzo noi scendiamo alle più profonde radici del nostro essere umano, e nel riaffiorare portiamo in noi esperienze tali che ci permettono di comprendere tutto quello che gli uomini – i quali non cadono mai nel pozzo – non comprenderanno mai”.

Non so dove stia la verità, ma queste due lettere mi hanno dato da pensare, mi hanno commossa, intenerita e anche fatta arrabbiare. Di sicuro un pozzo (e più di uno) l’ho esplorato anch’io e risalendo ho maturato una consapevolezza nuova, a volte dolorosa, a volte piena di speranza. Non mi sento di dire che tutti gli uomini non cadano nel pozzo, trovo che ci sia più partecipazione e più empatia da parte di alcuni (ancora troppo pochi) di loro rispetto al passato. Ma c’è tanto su cui lavorare.

Sono contenta che Natalia Ginzburg abbia trovato il suo stile unico e irripetibile, che abbia saputo indagare tutto quello che conosceva e amava. Ci ha regalato pagine intensamente umane e momenti di puro godimento di una scrittura piena e genuina. Le sono grata per aver raccontato il mondo femminile con la sua penna malinconica e vera, per aver compreso che quello lo sapeva fare e lo ha fatto alla grande. Era convinta che si debba scrivere e dire soltanto di quello che amiamo e che conosciamo. Di tutto questo faccio tesoro.

Per un approfondimento:

(photo by Willian Justen de Vasconcellos on Unsplash)