Mi capita, qualche volta, di ripensare al mio lavoro non esattamente in termini entusiastici. In genere tendo a raccontare solo le cose belle, non mi piace lamentarmi e credo che in fondo non interessi a nessuno, a parte ai miei colleghi. Tuttavia, penso che da una riflessione solo mia, possa scaturire un messaggio che riguarda un po’ tutti.
Ogni lavoro ha dei lati meno simpatici e non è giusto fingere che non esistano. Quel grigiore però si può trasformare in qualcosa di buono, sta a noi volerlo. Per circoscrivere il disagio e segregarlo in un angolino, ho pensato di stilare un piccolo elenco di aspetti negativi del mio lavoro, un modo per riflettere con leggerezza:
- Non c’è meritocrazia: il mio lavoro vale tanto quello di un collega che non sa redigere un verbale, non sa tenere la classe, non sa spiegare con semplicità e pazienza qualcosa. Anzi, spesso chi è capace, si ritrova a fare il lavoro per chi non lo è.
- L’unica possibilità di avanzamento è diventare dirigenti d’istituto, ma questo significa snaturarci perché è tutt’altro lavoro.
- C’è un sacco di lavoro extra, inutile quantificarlo in monte ore perché tanto non sarà retribuito (gite scolastiche, contatti con esperti, preparazione delle attività, colloqui e incontri con le famiglie)
- Ogni rara volta che si chiede un permesso (sono tre giorni in un anno) si prova un grande senso di colpa: qualche dirigente potrebbe storcere il naso, la scuola deve trovare un collega che ci sostituisca e che non sarà affatto felice di farlo.
- Dobbiamo gestire tantissima burocrazia: controllare firme, distribuire avvisi, ritirare moduli, telefonare alle famiglie se hanno dimenticato di firmare, raccogliere le ricevute di bonifici di gite, uscite didattiche e spettacoli teatrali, controllare i documenti di identità in caso di deleghe per il ritiro degli alunni.
- Molte volte ci tocca assistere a collegi docenti lunghi, affollati e pesanti e a corsi di aggiornamento slegati dalla realtà.
Che fare? Io ho trovato una piccola soluzione, oltre alla tradizionale rassegnazione: fare della creatività uno strumento di lavoro, della leggerezza (calviniana) uno stile di vita. Con la creatività posso dare un volto nuovo allo stile di insegnamento, personalizzare l’aula e renderla un posto accogliente anche per me, scrivere storie, mettere in relazione le mie passioni con il mio lavoro (la fotografia, la lettura, laboratori manuali, la poesia). Cercare corsi appaganti e interessanti, anche lontano da me e a mie spese.
Ho l’abitudine di raccogliere in un quaderno le cose divertenti e gli spunti poetici che sento in classe, rielaboro e trasformo, penso e ripenso a quello che a volte quei ragazzi seduti tra i banchi sono capaci di esprimere. Mi innamoro delle loro storie e mi compiaccio della fiducia che mi riconoscono quando nei temi mi parlano di sé.
In ogni lavoro c’è qualcosa che non va, nel mio si aggiunge il pregiudizio diffuso che molti manifestano quando si parla di vacanze e ore contrattuali degli insegnanti. E questo dà molto fastidio. Tuttavia, credo che questo pregiudizio sia continuamente alimentato da quei colleghi che davvero non fanno, abitudine diffusa nel mondo del lavoro dipendente statale… Basterebbe fare una accurata selezione in entrata o fare una formazione migliore, ma ancora oggi sembra un’utopia.
E tu, hai qualcosa che proprio non ti piace del tuo lavoro? Come sconfiggi l’insoddisfazione che può fare capolino di tanto in tanto? Raccontami.
Alcuni spunti:
- Una canzone, Something good can work (del gruppo Two Door Cinema Club).
- Un sito bellissimo di didattica della letteratura, in inglese.
- Un luogo, scuola Holden a Torino, dove di recente ho partecipato a un corso di aggiornamento, quello bello.
(photo by James Pond on Unsplash)
Potrei scrivere un libro sull’argomento…
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